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Il lavoratore deve provare il danno alla salute causato dal lavoro

Il lavoratore che agisce nei confronti del datore di lavoro per vedersi risarcire del danno subito a seguito di infortunio sul lavoro o malattia professionale ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno. È quanto evidenzia la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con ordinanza n. 37453 depositata il 21 dicembre 2022.

L’ordinanza si contraddistingue per la dettagliata definizione dei criteri di ripartizione dell’onere probatorio tra lavoratore e datore di lavoro nelle cause di risarcimento del danno differenziale da malattia professionale contratta nello svolgimento dell’attività lavorativa.

Malattia professionale e obblighi di sicurezza

Un montatore pontista muore a causa di un carcinoma. Gli eredi chiamano in causa la committente, che aveva affidato i lavori in appalto da svolgere all’interno dell’azienda alle società appaltatrici di cui il lavoratore era dipendente, per omissione delle misure di sicurezza, ritenendo l’esposizione a fibre di asbesto la causa del carcinoma letale.

In riforma della sentenza favorevole di primo grado, la Corte d’appello aveva successivamente respinto la domanda di risarcimento del danno degli eredi e accolto l’appello della committente e della ditta appaltatrice, ritenendo:

1) adempiuti gli obblighi di sicurezza da parte del committente a norma dell’art. 2087 c.c., in particolare, tramite il ricorso ai cd. “permessi di lavoro” per l’esecuzione delle attività in massima sicurezza nelle aree e nei reparti a maggiore rischio espositivo;

2) inesistente la prova dell’esposizione del lavoratore a fibre di asbesto nello svolgimento delle mansioni di montatore pontista, in quanto tale attività è preliminare alla manutenzione e alla riparazione e non può comportare un’esposizione continuata in zone con rischio di aerodispersione di fibre;

3) esistente, invece, la prova dell’abitudine al fumo del lavoratore, considerato il fattore di genesi del carcinoma diagnosticato.

Ambiente di lavoro rischioso e misure di prevenzione

Contro la sentenza di appello gli eredi hanno proposto ricorso per cassazione affidandolo ad un unico motivo.

Gli eredi censurano la sentenza per la erronea ricostruzione del contenuto dell’attività svolta dal lavoratore e della complessiva situazione degli impianti nonchè per avere negato il nesso causale (rinvenuto dal Tribunale sulla base di prove e risultanze di c.t.u. medico-legale) tra l’attività prestata dal lavoratore deceduto e la patologia contratta, violando pertanto il criterio civilistico di ragionevole e adeguata probabilità.

D’altronde, evidenziano gli eredi, l’ambiente polveroso (il massiccio impiego di amianto in raffineria non era stato negato dalle proprietarie dell’impianto ed era attestato da consulenze ambientali), la mancata disponibilità di mascherine e di altre misure di prevenzione, la dispersione incontrollata di fibre presenti nell’ambiente, la non consapevolezza dell’esistenza del rischio rendono certa l’esposizione del lavoratore, durante il periodo di lavoro, alle fibre di amianto.

Danno alla salute del lavoratore e onere della prova

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso presentato dagli eredi confermando il corretto operato della Corte territoriale nell’individuare i presupposti di responsabilità del committente nella cui disponibilità permane l’ambiente di lavoro (artt. 2087 c.c. e 7 del D.lgs. n. 626 del 1994).

La Suprema Corte ricorda, infatti, che il committente è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell’impresa appaltatrice, consistenti:

  • nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio;
  • nel predisporre quanto necessario a garantire la sicurezza degli impianti;
  • nel cooperare con l’appaltatrice nell’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all’attività appaltata (Cass. 13 gennaio 2017, n. 798; Cass. 25 febbraio 2019, n. 5419).

Presupposti di responsabilità non ravvisabili nel caso in oggetto.

Inoltre, evidenzia il giudice di legittimità, spetta al lavoratore che lamenta di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra (Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742; Cass. 19 ottobre 2018, n. 26495; Cass. 6 novembre 2019, n. 28516).

In caso di omissione di misure di sicurezza cd. nominate, espressamente previste dalla legge o da altra fonte vincolante, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore.

In caso di omissione di misure di sicurezza cd. innominate in quanto ricavate dall’art. 2087 c.c la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro è invece correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle misure di sicurezza, con l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, quali anche l’assolvimento di puntuali obblighi di comunicazione (Cass. 19 luglio 2007, n. 16003; Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 26 aprile 2017, n. 10319).

La Corte d’appello, conclude la Cassazione, ha esattamente applicato i principi di diritto regolanti la materia e il criterio causale del giudizio civile, ispirato alla regola di preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non” (Cass. 3 gennaio 2017, n. 47; Cass. 27 settembre 2018, n. 23197), escludendo l’esistenza di alcun nesso, neppure concausale, tra il fattore lavorativo e la malattia contratta, per avere il lavoratore deceduto prestato la propria attività in ambienti non esposti ad amianto.