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Periodo di prova tra durata, sospensione e proporzionalità

Qui di seguito, un interessante Approfondimento di Roberto Camera,  Esperto di Diritto del Lavoro, sul tema “Periodo di prova”.
 
“Gestire il periodo di prova, dopo le indicazioni del decreto Trasparenza e del Ministero del Lavoro, può non essere semplice per le imprese. Occorre considerare allo stesso tempo le novità che riguardano la durata massima, la sospensione e il conseguente prolungamento, nonché la sua proporzionalità. Tanti elementi che possono far sorgere dei dubbi ed ai quali occorre dare delle soluzioni. Ad esempio, se durante il periodo di prova si verifica un evento di sospensione della prova tale da prolungare oltre i sei mesi il periodo stesso, cosa deve fare il datore di lavoro? Quale parametro è possibile utilizzare per valutare la proporzionalità del periodo di prova rispetto alla durata del contratto a tempo determinato? Alcuni esempi e casi particolari possono essere di aiuto.
 
La disposizione contenuta nell’art. 7 del decreto Trasparenza (D.Lgs. n. 104/2022), ha apportato alcune modifiche gestionali al periodo di prova. Vediamole.

Durata

La durata del periodo di prova, laddove previsto all’interno del contratto individuale di lavoro, non può superare i 6 mesi (art. 7, comma 1, D.Lgs. n. 104/2022). Resta, comunque, in capo alla contrattazione collettiva l’onere di fissare la durata del patto di prova che dovrà essere relazionata all’inquadramento del lavoratore.
Ricordo che quando il legislatore parla di contrattazione collettiva, si riferisce non solo a quello nazionale (CCNL) ma anche alla contrattazione collettiva territoriale o aziendale, stipulata, quest’ultima, dalle rappresentanze sindacali aziendali (RSA) ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria (RSU) delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Ragion per cui, potrà essere anche una contrattazione di secondo livello a definire la durata del periodo di prova.
L’espletamento del periodo di prova, qualora previsto all’atto della sottoscrizione del contratto di lavoro, subordina la definitività della durata indicata nel contratto di lavoro.
Sospensione e prolungamento
In merito al prolungamento del periodo di prova, causato da eventi sospensivi, questo è quanto previsto dalla norma di legge (art. 7, comma 3, D.Lgs. n. 104/2022) e dal successivo intervento chiarificatore del Ministero del Lavoro (circolare n. 19, del 20 settembre 2022).
Il comma 3 dispone la sospensione del periodo di prova ed il suo conseguenziale prolungamento in misura corrispondente alla durata dell’assenza, in caso di:
– malattia;
– infortunio;
– congedo di maternità obbligatoria;
– congedo di paternità obbligatorio.
Anche per rispondere al principio di effettività del periodo di prova, l’indicazione di tali assenze – secondo quanto scritto nella circolare ministeriale – non ha carattere tassativo ma dovranno essere prese in considerazione anche tutti gli altri casi di assenza già riconosciuti dall’attuale ordinamento giuridico e previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
A titolo meramente esemplificativo:
– puerperio;
– sciopero o sospensione dell’attività da parte del datore di lavoro;
– congedi e i permessi, di cui alla legge n. 104/1992;
Viceversa, il decorso della prova non viene interrotto da eventi che, secondo un normale svolgimento del rapporto, possono comportare una sospensione del lavoro, come il riposo settimanale e le festività. (Cassazione, sentenza n. 23061/2007)
E veniamo alla nota dolente: tra la regola che prevede l’impossibilità di andare oltre i 6 mesi di durata del periodo di prova (comma 1) e la regola che dispone il prolungamento del periodo di prova qualora vi sia uno degli eventi sospensivi suindicati (comma 3), chi “vince”? Se durante il periodo di prova si verifica un evento di sospensione della prova tale da prolungare oltre i sei mesi il periodo stesso, cosa deve fare il datore di lavoro? Rispettare quanto previsto al comma 3 e prolungare la prova oltre la durata massima dei sei mesi ovvero rispettare il principio del comma 1 e terminare la prova al raggiungimento del sesto mese?
A questo dubbio, purtroppo, il Ministero del Lavoro non dà alcuna risposta, lasciando alla giurisprudenza l’onere di regolare la materia.
Lasciatemi solo un giudizio personale. Ritengo che la soluzione possa essere questa: se l’evento, che si è venuto a realizzare durante il periodo di prova, è di breve durata rispetto alla durata complessiva della prova stessa, è il caso di non superare il massimale dei sei mesi di prova e ritenere completata la prova al raggiungimento del limite massimo. Viceversa, qualora l’evento sospensivo sia “importante”, da un punto di vista di durata, rispetto alla prova stessa, è il caso di proseguire il periodo di prova in misura corrispondente alla durata dell’assenza, in modo da dimostrare che l’esperimento oggetto del patto di prova, voluto dall’art. 2096 del c.c., è stato effettuato in misura congrua rispetto a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva e rispetto alle mansioni svolte dal lavoratore.
Infatti, un’eventuale risoluzione datoriale, al termine del periodo di prova indicato nel contratto di lavoro, potrebbe essere ritenuta illegittima, in quanto la sperimentazione non si è realizzata per la prolungata assenza del lavoratore, il quale non ha potuto dimostrare le sue capacità professionali.

Contratto a tempo determinato

Il periodo di prova deve essere proporzionale alla durata del contratto stesso ed alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego (art. 7, comma 2, D.Lgs. n. 104/2022).
Purtroppo, però, il legislatore non si preoccupa di fornire un parametro per la riproporzione della durata del periodo di prova.
L’indicazione sul fatto che vi dovesse essere una proporzionalità del periodo di prova rispetto alla durata del contratto a tempo determinato, era già presente nella nostra giurisprudenza anche se, la stessa Corte d’Appello di Firenze, in una sentenza del 2021 (sezione lavoro, sentenza n. 253/2021), aveva evidenziato che: “manca nel nostro ordinamento una regola per stabilire la durata adeguata del periodo di prova nel contatto a termine”.
Detto ciò, al fine di rispettare il dettato normativo e riproporzionare la durata della prova alla durata del contratto di lavoro, potrebbe essere il caso di raggiungere questo assunto: nessuna proporzione nel caso in cui il contratto a termine superi i dodici mesi, mentre per i contratti di durata inferiore, si potrebbe prevedere la seguente proporzione: durata del periodo di prova diviso dodici mesi (l’anno) e moltiplicato per i mesi di contratto:
Esempio:
– durata del contratto di lavoro: 6 mesi
– periodo di prova previsto dal CCNL: 4 mesi
(4 ÷ 12 mesi) x 6

Reiterazione della prova

Qualora il datore di lavoro reiteri un contratto di lavoro nei confronti di un soggetto che ha svolto un precedente rapporto di lavoro con l’azienda, non è possibile prevedere il periodo di prova (art. 7, comma 2, decreto legislativo 104/2022).
L’importante è che per entrambi i rapporti di lavoro il lavoratore abbia svolto le stesse mansioni.
Quindi, il datore di lavoro prima di inserire nel contratto individuale di lavoro il periodo di prova dovrà verificare la sussistenza di un precedente rapporto di lavoro con il lavoratore a parità di mansioni.
Ritengo che la verifica debba avvenire in senso lato e cioè prendendo in considerazione non soltanto la medesima tipologia contrattuale, che oggi si vuole stipulare, ma anche tipologie diverse. Ad esempio, non sarà possibile prevedere il periodo di prova su un contratto a tempo determinato qualora il lavoratore abbia avuto un:
– pregresso rapporto a tempo determinato;
– pregresso rapporto in somministrazione;
– pregresso rapporto a tempo indeterminato, poi interrotto per dimissioni.
Un particolare ragionamento, viceversa, va fatto qualora il precedente rapporto sia stato, ad esempio, quello intermittente. In questo caso andrebbe verificata la durata delle prestazioni (“chiamate”) di lavoro, per verificare l’espletamento della prova. Ovvero se il pregresso contratto sia stato di collaborazione coordinata e continuativa. In questo caso, andrebbe valutata non solo l’attività resa dell’ex collaboratore ma anche la modalità con la quale è stata resa la prestazione. Dando per scontato che si sia trattato di un rapporto di collaborazione genuino, va da se che oggi il datore di lavoro potrà prevedere il periodo di prova su un contratto subordinato, stante il fatto che la “sperimentazione”, prevista dall’art. 2096 c.c., non si può dire effettuata, in quanto non ha potuto verificare le “risposte” del lavoratore alle richieste organizzative e direttive al quale è stato comandato.