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Illegittimo l’uso di Ammortizzatori COVID in assenza di compressione dell’attività produttiva

Anche nel caso di CIGO per causale COVID-19, presupposto legale per la legittima erogazione del trattamento di integrazione salariale è la sussistenza di situazioni di oggettiva difficoltà aziendale nella regolare continuazione della propria attività produttiva. Di contro, l’utilizzo della CIGO per liberarsi dall’obbligazione remunerativa nei confronti del lavoratore, nell’impossibilità legale di procedere al suo licenziamento, contrasta con la ratio dell’istituto il quale, sovvenzionato dalla collettività a fini solidaristici, si giustifica in ragione del mantenimento dei posti di lavoro durante periodi di difficoltà aziendale (Tribunale di Roma, ordinanza 30 giugno 2021).

La vicenda giudiziaria nasce dalla domanda cautelare (art. 700 c.p.c.) proposta da un lavoratore, al fine dell’accertamento dell’illegittimità del provvedimento con il quale era stata disposta la sua sospensione dal lavoro, con collocamento in CIGO per causale COVID-19. Ad avviso del lavoratore, detto provvedimento era stato adottato in mancanza dei presupposti legali. In particolare, l’ammortizzatore sarebbe stato impropriamente utilizzato dall’azienda, cioè a mero fine ritorsivo e comunque per attuare politiche di riorganizzazione aziendale, dettate da ragioni di convenienza economica, considerata l’impossibilità di procedere al suo licenziamento. Di qui, si richiede la riammissione in servizio presso la propria sede di lavoro, con le mansioni ordinariamente svolte, nonchè la condanna della Società datrice di lavoro al pagamento delle differenze retributive e del risarcimento del danno non patrimoniale all’immagine ed alla professionalità.

Il datore di lavoro si è costituito in giudizio ed ha eccepito:
– l’incompetenza territoriale del Tribunale in quanto la Società non avrebbe alcuna sede nella circoscrizione, né una propria dipendenza presso la quale fosse addetto il lavoratore;
– l’insussistenza del periculum in mora, sia sotto il profilo della mancata allegazione di elementi a supporto della sussistenza di un pregiudizio imminente e irreparabile, sia in considerazione delle proposte di ricollocazione dell’azienda avanzate al lavoratore;
– l’infondatezza nel merito del ricorso, in quanto la normativa (art. 19, Decreto Cura Italia) permetterebbe di avvalarsi dell’ammortizzatore sociale per causale COVID-19 anche in caso di mera riorganizzazione aziendale, pur in assenza di fattori idonei a comprimere i volumi d’affare della società.
Preliminarmente, la questione riguardante la competenza territoriale non può essere accolta. Difatti, nella sede di lavoro, indicata contrattualmente peraltro, erano dislocati i beni facenti parte del complesso aziendale, tra i quali un personal computer portatile, un’autovettura aziendale, una multicard carburanti e un apparato Telepass, che al lavoratore erano stati assegnati per lo svolgimento delle sue mansioni. In tal senso, secondo la giurisprudenza di legittimità, la nozione di dipendenza aziendale non coincide necessariamente con quella di unità produttiva, ma deve intendersi in senso lato, al fine di favorire il radicamento del foro speciale nel luogo della prestazione lavorativa. In particolare, condizione minima è che l’azienda disponga in quel luogo di un nucleo di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, cioè destinato al soddisfacimento delle finalità imprenditoriali, anche se modesto e di esigue dimensioni. E’ sufficiente che in tale nucleo operi anche un solo dipendente e non è necessario che i relativi locali e le relative attrezzature siano di proprietà aziendale, ben potendo essere di proprietà del lavoratore stesso o di terzi. Ulteriormente, si può ritenere sussistente la dipendenza aziendale alla quale è addetto il lavoratore anche nella residenza del lavoratore quanto questi svolga l’attività lavorativa in tale luogo, avvalendosi di strumenti destinati all’attività aziendale, individuati in genere in un computer collegato con l’azienda e nei relativi strumenti di supporto” (Corte di Cassazione, ordinanza 15 luglio 2013, n. 17347).


Nel merito, il ricorso del lavoratore è parzialmente fondato.
L’istituto dell’integrazione salariale ordinaria integra o sostituisce la retribuzione dei lavoratori a cui è stata sospesa o ridotta l’attività lavorativa, per situazioni aziendali dovute a eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali, nonché per situazioni temporanee di mercato. Dunque, la CIGO può essere concessa esclusivamente in situazioni in cui via sia una oggettiva difficoltà aziendale nella regolare continuazione della propria attività produttiva. Ebbene, tale situazione non è rinvenibile nel caso di specie, dal momento che la società non ha subito alcuna compressione della propria attività produttiva durante il periodo di emergenza epidemiologica da COVID-19. Al contrario, il provvedimento di collocamento in cassa integrazione è stato funzionale a consentire alla società di liberarsi dall’obbligazione remunerativa nei confronti del lavoratore, nell’impossibilità legale di procedere al suo licenziamento. Altresì, il predetto improprio utilizzo contrasta anche con la ratio della cassa integrazione la quale, sovvenzionata dalla collettività a fini solidaristici, non può rappresentare uno strumento di supporto alle aziende per fini di massimizzazione economica, ma si giustizia in ragione del mantenimento dei posti di lavoro durante periodi di difficoltà aziendale.
Passando poi all’ulteriore elemento necessario per l’accoglimento del ricorso ex art. 700 c.p.c., rappresentato dal periculum in mora, ossia dal fondato timore che, nel tempo occorrente per far valere il diritto in via ordinaria, quest’ultimo sia minacciato da un danno grave e irreparabile, la sospensione del lavoratore, il cui elevato profilo è fondato su “prolungato esercizio delle funzioni”, è idonea ad ingenerare danno alla sua professionalità, pregiudizio imminente e insuscettibile per sua natura di integrale risarcimento per equivalente (si pensi alla proiezione del danno sulle future possibilità occupazionali del ricorrente anche presso terzi), circostanza che giustifica una tutela in via d’urgenza.
Infine, non può essere accolta in sede cautelare la richiesta del lavoratore avente ad oggetto la condanna della resistente al pagamento, in suo favore, di una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale all’immagine ed alla professionalità, in quanto da un lato la dichiarazione di illegittimità della sospensione del lavoro appare di per sé idonea ad evitare il lamentato pregiudizio e dall’altro, essendo il risarcimento rimedio di natura patrimoniale e come tale differibile.