La Corte di cassazione, con ordinanza 10648 del 23 aprile 2025, torna a pronunciarsi sulla nozione di orario di lavoro e sulla qualificazione giuridica dei turni di reperibilità notturna con obbligo di permanenza presso il luogo di lavoro.
Il caso oggetto del giudizio offre lo spunto per chiarire, in armonia con la normativa dell’Unione europea e la giurisprudenza della Corte di giustizia, quando un periodo debba considerarsi “tempo di lavoro” ai fini retributivi e contrattuali.
La vicenda processuale
Il giudizio ha visto come protagonista un lavoratore dipendente di una cooperativa sociale, incaricato di svolgere turni di reperibilità notturna con pernottamento obbligatorio presso la struttura dell’ente. Il lavoratore aveva chiesto in giudizio il riconoscimento delle differenze retributive per lavoro straordinario e notturno affermando che il tempo trascorso in struttura, sebbene non sempre impegnato in attività operative, doveva comunque essere retribuito come orario effettivo di lavoro.
In primo grado la domanda era stata accolta, ma la Corte d’appello l’aveva poi rigettata, valorizzando la previsione dell’articolo 57 del Ccnl applicabile, che prevede una modesta indennità mensile per la reperibilità. I giudici di merito avevano escluso che il lavoratore avesse svolto un’attività tale da giustificare la retribuzione come lavoro straordinario notturno.
Il principio europeo e l’interpretazione della Cassazione
La Cassazione ribalta tale impostazione, accogliendo il ricorso del lavoratore e cassando con rinvio la sentenza impugnata; secondo i giudici di legittimità, infatti, la nozione di «orario di lavoro», come risultante dalla Direttiva 2003/88/CE, si contrappone in modo netto al «periodo di riposo». Ne deriva che, i periodi nei quali il lavoratore è obbligato alla presenza fisica sul luogo indicato dal datore di lavoro, anche senza svolgimento di mansioni attive, costituiscono tempo di lavoro a tutti gli effetti.
Nel richiamare la sentenza della Corte di giustizia Ue del 9 marzo 2021 (causa C-580/19), la Cassazione evidenzia che il tempo in cui il lavoratore è obbligato a rimanere in struttura, lontano dal proprio ambiente familiare e sociale, limita fortemente la sua libertà personale anche se non si concretizza in prestazioni operative. Tale tempo, quindi, non può essere qualificato come riposo e deve essere considerato orario di lavoro, indipendentemente dal fatto che il lavoratore sia o meno chiamato a intervenire.
Implicazioni retributive
Pur non affermando un diritto automatico alla retribuzione per lavoro straordinario notturno, la Corte precisa che il periodo di reperibilità con obbligo di pernottamento deve essere retribuito in modo proporzionato e dignitoso, in ossequio all’articolo 36 della Costituzione, rispetto a cui la misera indennità forfettaria prevista dal Ccnl appare in contrasto con tale principio.
Ne consegue che il trattamento economico riconosciuto al lavoratore non può essere puramente simbolico o riduttivo, ma deve rispecchiare la concreta compressione del tempo libero e il vincolo di disponibilità imposto dal datore di lavoro.
Il principio di diritto affermato
La Cassazione afferma, dunque, un principio di diritto destinato ad avere notevole impatto interpretativo e applicativo «In base alla normativa dell’Unione europea, come interpretata dalla Corte di Giustizia e come attuata nella normativa italiana, la definizione di orario di lavoro va intesa in opposizione a quella di riposo, con reciproca esclusione delle due nozioni. Inoltre, l’obbligo per il lavoratore, di svolgere turni di pernottamento presso il luogo di lavoro, anche se non determina interventi di assistenza, va considerato orario di lavoro e deve essere adeguatamente retribuito, laddove la retribuzione dovuta per tali prestazioni, deve essere conforme ai criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione, dettati dall’articolo 36 della Costituzione».
Conclusioni
L’ordinanza 10648/2025 della Cassazione riafferma, quindi, un principio fondamentale, ossia che il tempo in cui il lavoratore è obbligato alla presenza fisica, anche passiva, sul luogo di lavoro, è tempo sottratto alla vita personale e, pertanto, deve essere retribuito con criteri di dignità e proporzionalità. Alla luce del diritto Ue e costituzionale, la mera previsione contrattuale di un’indennità simbolica non basta e la giurisprudenza, sempre più attenta al bilanciamento tra tempi di vita e tempi di lavoro, si pone come guida nell’adeguamento del diritto interno, ai più avanzati standard di tutela europea.
La pronuncia si inserisce in un percorso giurisprudenziale già avviato (Cass. 32418/2023 e 34125/2019), che tende a valorizzare la sostanza del tempo lavorato più che la sua mera qualificazione contrattuale; essa evidenzia l’influenza crescente del diritto Ue nella regolazione del rapporto di lavoro anche in ambiti apparentemente delegati alla contrattazione collettiva.
Nel quadro dell’evoluzione del diritto del lavoro, la dicotomia orario/riposo si conferma centrale, per la tutela effettiva dei diritti del lavoratore e la riconoscibilità giuridica del tempo “a disposizione”.
Le organizzazioni datoriali e i contratti collettivi sono, dunque, chiamati a rivedere prassi e discipline che non garantiscono una retribuzione adeguata per tali forme di disponibilità.
Fonte Norme & Tributi Plus – Il Sole 24ore