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Licenziamento disciplinare, tardività della contestazione e applicazione della tutela indennitaria

La dichiarazione giudiziale di risoluzione del licenziamento disciplinare conseguente all’accertamento di un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell’addebito posto a base dello stesso provvedimento di recesso, ricadente “ratione temporis” nella disciplina dell’art. 18 st. lav, così come modificato dal comma 42 della legge 92/2012, comporta l’applicazione della sanzione dell’indennità come prevista dal quinto comma dello stesso art. 18 della legge n. 300/1970.
 

La fase di merito e i fatti di causa

La Corte Territoriale di Salerno, in riforma della sentenza di primo grado, pronunciata nell’alveo di un procedimento c.d. “Fornero”, annullava il licenziamento disciplinare irrogato nel gennaio 2019 ad un lavoratore già in forza presso l’Agenzia delle Entrate / Riscossione, attivando le tutele stabilite dall’art. 18, co. 4, l. 300/1970.

Alla base della motivazione stava l’accertata tardività della contestazione disciplinare prodromica al provvedimento espulsivo, essendo stato ritenuto eccessivo il tempo trascorso tra la chiusura dell’audit interno (marzo 2018) e la trasmissione all’ufficio disciplinare del fascicolo del lavoratore (dicembre 2018), con conseguente violazione del principio di tempestività che deve caratterizzare le vicende disciplinari, a tutela dei lavoratori.

SI trattava, secondo il Collegio, non già di una mera violazione procedurale (non essendo previsto espressamente nel CCNL di comparto un termine decadenziale per l’esercizio del potere disciplinare), ma di una lesione sostanziale del predetto principio di tempestività, da cui l’applicazione (per così dire “severa”) della tutela reintegratoria.

Avverso detta sentenza proponeva ricorso l’Agenzia, affidandolo a tre motivi di diritto; parimenti il lavoratore resisteva con controricorso.

Il giudizio di Cassazione

Con il primo motivo (ex art. 360, co. 1, n 3 c.p.c.) si denunciava erronea interpretazione e applicazione dell’art. 7 st. lav., da leggersi congiuntamente con gli artt. 1175 e 1375 c.c. (in tema di buona fede nell’adempimento delle obbligazioni contrattuali), rappresentando addirittura (questa volta ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c.) la nullità della sentenza impugnata.

Con il secondo motivo si rilevavano violazione dell’art. 132, co. 1, n. 4 c.p.c., domandando che fosse accertata la nullità della sentenza nella parte in cui, con motivazione ritenuta “apparente”, sosteneva la necessità di ponderare la “fiducia datoriale” e l’ “affidamento del lavoratore”, sostanzialmente contestando i passaggi della motivazione che hanno giudicato “non gravi” i comportamenti addebitati al lavoratore oggetto di licenziamento disciplinare.

Con il terzo e ultimo motivo si deduceva (questa volta ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.) erronea interpretazione / applicazione dell’art. 18, co. 4, 5 e 6 st. lav., dolendosi nello specifico della mancata applicazione del comma 5 del predetto art. 18.

I primi due motivi di corso, collegati logicamente e giuridicamente, venivano scrutinati in modo congiunto dalla S.C., che li riteneva del pari infondati.

Infatti, come ricostruito dagli Ermellini, si ha nullità della sentenza solo in ipotesi di “motivazione apparente”[1], contraddittoria , “obiettivamente incomprensibile”[2].

Nessuna di queste ipotesi, ad avviso della Cassazione, ricorreva nel caso di specie, atteso che il percorso motivazionale espresso dalla Corte d’Appello per sostenere la tardività della contestazione disciplinare non appariva sufficiente a determinare la nullità della sentenza; ciò appurato, tenendo conto che per costante giurisprudenza di legittimità[3], il tema inerente la tempestività della procedura disciplinare rientra nella valutazione del giudizio di merito.

I due motivi venivano pertanto rigettati.

Il terzo e ultimo motivo veniva invece ritenuto fondato dal Supremo Collegio.

Facendo una rassegna dell’evoluzione ermeneutica in chiave nomofilattica, tenendo anche conto di un revirement rispetto a quanto espresso in una pronuncia del 2017[4] , si è arrivati all’attuale orientamento, secondo cui se il licenziamento sia stato basato su una contestazione non tempestiva (tenendo altresì conto della relatività di detto concetto), ci si trova fuori dal perimetro applicativo della tutela reale “attenuata” (art. 18, comma 4, “nuova versione”), da applicarsi nei casi di accertata insussistenza del fatto.

La S.C. escludeva, pertanto, che dalla tardività come sopra rappresentata (e a fronte di fatti non contestati e gravi) potesse discendere il rimedio della tutela reale piena, esprimeva il seguente principio di diritto, di significativa rilevanza: “La dichiarazione giudiziale di risoluzione del licenziamento disciplinare conseguente all’accertamento di un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell’addebito posto a base dello stesso provvedimento di recesso, ricadente “ratione temporis” nella disciplina dell’art. 18 st. lav, così come modificato dal comma 42 della legge 92/2012, comporta l’applicazione della sanzione dell’indennità come prevista dal quinto comma dello stesso art. 18 della legge n. 300/1970″[5].

Solo qualora, aggiunge come chiosa la S.C. sempre in riferimento alla stratificata evoluzione esegetica sul tema, vi fosse una lesione non solo formale, ma anche sostanziale, del principio di tempestività, da cui scaturisca la contrarietà del ritardo datoriale agli obblighi di correttezza e buona fede, potrà discendere la tutela di cui al comma 5 dell’art. 18 (e non quella indennitaria di cui al comma 6), ma certamente non quella reintegratoria c.d. “attenuata”, applicata nel caso di specie dalla Corte d’Appello, la cui sentenza, per le ragioni contenute nel terzo motivo di ricorso, veniva pertanto cassata e reinviatale, così che, in diversa composizione, potrà uniformarsi a quanto statuito in tema di regime di tutela applicabile.

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Fonte Norme & Tributi Plus – Il Sole 24ore