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Naspi, stretta per chi si è dimesso ma con una lista di esclusioni

Con la circolare 98/2025, l’Inps ha chiarito nel dettaglio quando si applica la “stretta” sulla Naspi contenuta nella legge di Bilancio 2025 e come si perfeziona il requisito delle 13 settimane di contributi necessarie per accedere alla prestazione di disoccupazione, in caso di una precedente risoluzione volontaria di un rapporto di lavoro.

Dal 1° gennaio 2025 l’accesso alla Naspi è infatti subordinato a un nuovo requisito. Fermi restando gli altri obblighi di legge, il lavoratore che abbia subito la cessazione involontaria di un rapporto, nel caso in cui avesse risolto volontariamente un contratto di lavoro nei 12 mesi precedenti, deve vantare almeno 13 settimane di contributi nell’arco temporale intercorso fra la risoluzione volontaria e quella involontaria, che origina l’indennità di disoccupazione.

Lo ha previsto l’articolo 1, comma 171, della legge 207/2024 , inserendo la lettera c-bis, all’articolo 3, comma 1, del Dlgs 22/2015.

Con la circolare 98/2025, l’Inps ha spiegato che non tutte le ipotesi di cessazione volontaria portano a richiedere il nuovo requisito.

Le dimissioni escluse 

Sono infatti escluse le dimissioni per giusta causa, rassegnate in base all’articolo 2119 del Codice civile, quando si verifica una ragione che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Secondo la giurisprudenza esse sono riconducibili, ad esempio, al mancato pagamento della retribuzione, alle molestie sessuali sul lavoro, alla modifica peggiorativa delle mansioni lavorative, anche in seguito alla cessione dell’azienda, al mobbing, al comportamento ingiurioso del superiore.

Tra le esclusioni, c’è anche la risoluzione consensuale prevista dall’articolo 7 della legge 604/1966, attinente alla procedura di licenziamento di lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, per le aziende con più di 15 dipendenti.

Fra le ipotesi di dimissioni per giusta causa rientra anche quella relativa alle dimissioni in seguito al trasferimento del lavoratore a un’altra sede della stessa azienda, in assenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive e ciò indipendentemente dalla distanza tra la residenza del lavoratore e la nuova sede di lavoro.

Tra le fattispecie di risoluzione consensuale che non pregiudicano l’accesso alla Naspi, si individua anche quella intervenuta in seguito al rifiuto da parte del lavoratore al trasferimento a un’altra sede della stessa azienda distante oltre 50 chilometri dalla propria residenza o mediamente raggiungibile in 80 minuti, od oltre, con i mezzi di trasporto pubblici.

Sono infine escluse le dimissioni rassegnate nel periodo in cui vige il divieto di licenziamento per maternità e paternità (articolo 55 del Dlgs 151/2001), tenuto conto che, nella fattispecie, la lavoratrice (ma anche il lavoratore) ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento, inclusa evidentemente la Naspi.

La circolare 98/2015 ha anche chiarito che, mentre la cessazione volontaria per dimissioni o risoluzione consensuale deve riferirsi a un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quella involontaria che origina la Naspi può riguardare rapporti di lavoro sia a tempo indeterminato che a termine.

Il calcolo delle 13 settimane

Per l’affermazione del requisito delle 13 settimane, sono da considerare utili tutte quelle che, nel rispetto del minimale settimanale, perfezionano il requisito contributivo (si veda la circolare Inps 94/2015). Vi rientrano:

i contributi previdenziali, comprensivi della quota Naspi, versati durante il rapporto di lavoro subordinato;

i contributi figurativi accreditati per maternità obbligatoria se all’inizio dell’astensione risulta già versata o dovuta contribuzione e i periodi di congedo parentale purché regolarmente indennizzati e intervenuti in costanza di rapporto;

i periodi di lavoro all’estero in paesi comunitari o convenzionati se prevista la possibilità di totalizzazione;

i periodi di astensione dal lavoro per malattia dei figli fino a otto anni di età nel limite di cinque giorni lavorativi nell’anno solare.

Eventuali settimane di contribuzione nel settore agricolo sono utili per il perfezionamento del requisito, fatti salvi i parametri di equivalenza, che prevedono sei contributi giornalieri agricoli per il riconoscimento di una settimana contributiva. Accertato il requisito di accesso, resta ferma la disciplina generale sulla verifica della prevalenza in caso di alternanza di periodi di lavoro nel settore agricolo e in altri settori.

Fonte Norme & Tributi Plus – Il Sole 24ore